martedì 30 marzo 2010

Musica: Genesis - Firth of Fifth

martedì 30 marzo 2010 alle ore 20.36



1973: i Genesis – band inglese composta da Peter Gabriel, Phil Collins, Tony Banks, Mike Rutherford e Steve Hackett - concepiscono Selling England by the pound, album di una bellezza totale che esprime perfettamente la loro anima progressive.
Una delle tracce è Firth of fifth, capolavoro assoluto della loro produzione: il titolo è un gioco di parole che trasforma il “Firth of Forth”, fiume scozzese, in “Firth of Fifth”, essendo la band composta da cinque elementi. Si narra anche che il titolo della canzone sia venuto da un’idea di Gabriel: un uomo, vedendo cinque persone agonizzanti e assetate, pensa bene di saltargli sopra e dissetarli con l’acqua che fuoriesce dalle loro bocche, essendo il corpo umano composto per il 75% di acqua; solo arrivato al quinto si accorge però che l’acqua venuta fuori è assolutamente insufficiente per farli rinvenire, dal momento che si trovano ancor più indeboliti e disidratati di prima: così, dopo averne involontariamente uccisi quattro, appura l’impossibilità di salvarli quando posa lo sguardo sulla bocca (firth, vocabolo in realtà inesistente in lingua inglese) del quinto (fifth).

La caotica, ma al tempo stesso ordinata e lucida epopea di emozioni ha inizio con un soliloquio di Banks al piano, veloce e deciso, con assidui cambi di ritmo volti a delineare la prima azzeccatissima melodia.

Poi, ecco spuntare il canto di Gabriel: l’orchestra inizia a prender forma con l’introduzione del conciliante suono dell’organo di Banks e l’insinuarsi delle prime timide battute sul tamburo di Collins.

The path is clear
Though no eyes can see
The course laid down long before.
And so with gods and men
The sheep remain inside their pen,
Though many times they've seen the way to leave.
He rides majestic
Past homes of men
Who care not or gaze with joy,
To see reflected there
The trees, the sky, the lily fair,
The scene of death is lying just below.

La via verso la gloria assoluta è chiara: esiste da sempre, tracciata da qualcuno. I mezzi per solcare il percorso ci sono da tempo. E’ un cammino verso l’oceano, un cammino guardato gioiosamente da tutti, che ci vedono riflessi i bei lillà. E’ il fiume, maestoso: lo si potrebbe cavalcare, ci si potrebbe provare: ma si è ancora pecore, e come tali, per ora, si sta dentro il recinto. Sui fondali del fiume si annida la morte oscura, ed annegare è in realtà molto più facile di quanto sembri.

Il tono di voce si affievolisce per poi rialzarsi progressivamente, mentre l’organo è pressoché ammutolito.

The mountain cuts off the town from view,
Like a cancer growth is removed by skill.
Let it be revealed.

La montagna intorno al fiume nasconde tutto il resto, tutto ciò che lo circonda: gli altri, i movimenti, i gruppi, i pensieri, i critici, persino il pubblico; bisogna tagliarli fuori, reciderli risolutamente. Bisogna rimuovere il cancro che si annida là fuori, attentamente, senza sbavature. Isolarsi e chiudersi in studio di registrazione. In fondo il cancro, la morte spirituale, è così vicina ai bei lillà: il capolavoro è così vicino alle solite composizioni stanche e noiose… Il confine tra le due cose è in realtà molto sottile. Ma si deve tentare, almeno tentare di cavalcare il fiume, lasciando che l’esperienza si riveli, sincera. Ci ha già provato Banks, col suo incipit al pianoforte… inutilmente.

Siamo all’alba del quarto minuto: i piatti di Collins, in sottofondo, sembrano limarsi le unghie in attesa di esibirsi spudoratamente. Il canto di Gabriel si fa stridulo e contorto.

A waterfall, his madrigal.
An inland sea, his symphony.

Un madrigale? Una sinfonia? Potrebbe trattarsi di questo.

Ed ecco che la voce si rileva verso l’alto, possente, trascinata dal cambio di ritmo imposto dalla batteria.

Undinal songs
Urge the sailors on

Till lured by sirens' cry.

Per ora i Genesis urgono come navigatori, come pecore chiuse nel recinto. Soltanto come navigatori, finchè non verranno adescati dalle sirene, dall’orchestrata che stavolta, con tutta probabilità, riusciranno a mettere in piedi. Solo allora non serviranno più come navigatori, ma soltanto più come navigati, semplici passeggeri trasportati da loro stessi, passivamente, incomprensibilmente, verso il mare. Non se ne accorgeranno neanche, di non essere più pecore.

Il cantato si dilegua per far posto al piano di Banks, redivivo, ancor più soffuso e lento, incaricato di creare l’atmosfera leggendaria: folate di vento l’accompagnano, in attesa dell’esplosione di perizia.

E’ quando sono trascorsi 3 minuti e 29 secondi che appare sulla scena, inatteso, il suono dolcissimo di un flauto che presenta al mondo intero la melodia del fiume, l’infilata di note che lancia verso universi più grandi del nostro, sovrastanti la semplice composizione calcolata in studio. Anche il flauto, come il piano, ci prova deciso: si è sulla rampa di lancio, ma manca ancora qualcosa.

Collins designa il prosieguo dell’opera, sostenendo col suo battere incessante il ritorno del coinvolgente pianoforte di Banks, stavolta piuttosto allegro, che ci porta in un luogo fiabesco, mare armonico e popolato di sirene: sul finire però si rabbuia…

Irrompe una tastierata convulsa, sempre più veloce, sempre più arrembante; l’ancora ignaro spettatore si ritrova inoltre frastornato dalla ruggente batteria che si fa sempre più protagonista. La melodia che si inserisce tra i due soggetti è qualcosa di indescrivibile, qualcosa che si moltiplica ogni volta che la si ascolta: una ridondanza sempre nuova. Lei potrebbe dominare la scena intera, prendere il sopravvento: ma ci ripensa, lasciando nuovamente il palcoscenico alle sintetizzate di Banks.

5 minuti e 45 secondi: parte lei. Timida, confusa, tendente all’infinito. L’universo altro del primo flauto si riaffaccia, tenendo però un basso profilo. E’ un continuo tendere a qualcosa, un lamento perpetuo, tanto ripetuto quanto sconnesso. La chiave non si è ancora rivelata, ma dà tutta l’impressione di volerlo fare.

La chitarra elettrica si ricompone, Hackett dimostra di conoscere il motivo alla perfezione, disegnandolo senza sbavature: impeccabile, accompagnato dai tocchi sottili offerti da una batteria mai doma. E’ lei che, scatenandosi, lancia l’assolo che si amplifica, spalanca i polmoni e respira solitario, mentre la chitarra acustica di Rutherford in sottofondo rimanda sommessamente ad una nuova, improvvisa interruzione.

Anche Hackett pare non farcela, dunque: torna su un profilo modesto e caotico, giocando sulle note come fosse perduto, come si fosse arenato sul bordo del fiume; come stesse scappando verso la città tutt’intorno, quella fin dal principio rinnegata, quella popolata da centinaia di bravissimi, virtuosi, anonimi musicisti.

Ma non è ancora finita: Collins e Hackett ci riprovano, riprovano a navigare verso il mare, ed il risultato è un incondizionato lasciarsi trasportare dalla corrente impazzita: la nave dei cinque giunge finalmente allo sbocco sul mare, veicolata da un assolo superlativo: pulito e fortissimo, acuto e suadente.

La tempesta strumentale è venuta, ed ora può assopirsi per lasciar spazio ad una calma grandiosa, capace di far riflettere su quanto già ascoltato e sullo spettacolo che si presenta davanti ai cinque: l’oceano sconfinato. Non c’è più bisogno di dimostrar niente, ora il riposo è d’obbligo.

Quando ormai gli otto minuti sono passati, l’organo torna a padroneggiare cadenzato dai tocchi svizzeri dei tamburi tribali di Collins, e la voce di Gabriel pare appagata dalla sensazionale esperienza.

Now as the river dissolves in sea,
So Neptune has claimed another soul.
And so with gods and men
The sheep remain inside their pen,
Until the Shepherd leads his flock away.
The sands of time were eroded by
The river of constant change.

I cinque son rimasti come pecore nel recinto, il recinto del già sentito, del facilmente dimenticabile, fin quando un pastore inesplicabile li ha guidati lontano, fuori dal recinto: un pastore più forte degli stessi dei.

Il rock rivendica un’altra anima, un altro pesce grosso, un’altra memorabile melodia.

Chiude l’esperienza il piano di Banks, sullo stesso motivo iniziale, in un processo circolare che dopo il climax centrale vede il ritorno alla speranza, la speranza di poter rifare un qualcosa di simile, di travolgente, di infinito.

Una speranza felicemente vana.

tratto da:
http://fire.rettorato.unito.it/blog/?id=31007